DEL CENTRO VINCENZIANO
Vista la sua decennale esperienza non escludo in lei la mia stessa conoscenza. Nel caso fosse ho parlato per niente. Nel caso non fosse, però, ho parlato per qualcosa; e questo, (richiesto o no che sia) è sempre un bene. Libera lei, e libero me, di usare questo scritto come crediamo meglio. Ogni volta mi trovo a vedere e/o sentire delle contraddizioni fra il nostro dire ed il nostro fare, non manco di dirlo. Non so (come è già stato ipotizzato) se questo mio informale agire possa rendermi non adatto a questo Centro di Carità. Certamente potrebbe farmi diventare inadatto ai Servi che servono questo Centro di Carità. Pazienza. Non so cosa dire, se non che mi è naturale seguire gli scopi universali della vita, e molto poco naturale seguire i particolari: nella Carità a maggior ragione! Mica lo faccio per cattiveria o mancanza di rispetto! Lo faccio, perché, con una morte, la vita mi ha mostrato, quanto Le sono effimeri (quando non contrari) i nostri non pochi bagagli. Alla presente segnalazione (valida anche per altre se mai verranno) aggiungo la prima regola del contratto di sincerità che stipulo con gli amici: io dico quello che penso, e voi fate quello che volete!
La superiora (minuscolo voluto) mi dice di non averla letta. Troppo impegnata, mi dice. Sospetto, invece, troppo sedimentate le abitudini e non graditi i rilievi segnalati da un volontario che vedendo oltre il suo posto si sogna pure di dirlo.
In oggetto: altra visione nell’organizzazione della distribuzione dell’abbigliamento maschile.
Vero che le persone che si servono del servizio Abbigliamento sono sempre trenta, ed è vero che anche il tempo per attuarlo è sempre quello. Capita, però, che delle singole esigenze dilatino il tempo necessario per ognuna, col risultato di rendere il compito della vestizione, talmente assillante da stracciare l’animo. Nei casi di maggior peso, quello stress può giungere a far rifiutare la stessa personalità dell’assistito; è, questo rifiuto, una corrosiva astiosità, che la Volontaria sa generalmente contenere. Lo paga però (quel auto contenimento) con una maggior consumo della forza spirituale delle sue caritatevoli emozioni; forza che deve recuperare ogni volta si ripresenta il compito da svolgere. Per un animo cosciente di sé, quel recupero è sentito sempre più pesantemente. Lo può diventare, al punto da costringere l’Ausiliaria a rifugiarsi in uno stato di indifferenza (e/o straniamento) verso la vita della personalità assistita. Nel caso succeda, il compito caritatevole dell’Ausiliaria finisce con il diventare impersonale. Se è vero che quell’autodifensiva impersonalità non toglie nulla al servizio, è vero, invece, che mina quella con_passione, che, divelta dalla carità, la fa diventare un mestiere. Che fare? Visto che non da oggi sappiamo che la verità sta in mezzo, direi, dividendo in due quel mezzo di carità che è il servizio in oggetto; dividerlo, cioè, o in due giorni, o in due orari dello stesso giorno.
Allo scopo, diventerà necessario organizzare le Ausiliarie in due squadre. Nell’ipotesi di poter gestire un secondo turno, consiglierei un orario pomeridiano, magari, precedente l’orario mensa. Ecco così, che lo straordinario intervento che le capita di dover praticare, diventa ordinario. Quella raggiunta ordinarietà, otterrà lo scopo di far cessare quei dissidi da preferenza e/o preferito, che nelle menti non rette da collettive ragioni sono causa degli intimi contrasti che lacerano l’empatia (personale o associativa che sia) fra Assistenti (religiosi o no che sia) ed Assistiti. A dire degli Assistiti che ufficiosamente ascolto da anni, (anche se qui, ufficialmente, da poco) questo Centro di carità non è visto bene ogni qualvolta si trova a dover favorire delle individuali richieste in orario di mensa, e/o in altro giorno. Come ho avuto occasione di dirle, gli assistiti del Centro hanno più bisogno di giustizia che di pietanza; e non sono io a dirlo, bensì loro, quando mi fanno capire che gli è più facile tollerare i calzini bagnati piuttosto che un atto di non condivisa e/o non capita necessità. Si trova altresì nella stessa dissidiante situazione (sempre a loro dire) quando constatano (anche amaramente) che la richiesta educata viene respinta e la maleducata, ascoltata anche quando non accolta.
Loro non sanno (o non gli fa comodo sapere) che non è mica tanto semplice dire di no, e neanche tanto semplice distinguere il bisogno vero dal bisogno falso. Loro sanno, però (o gli fa comodo sapere) che la maleducazione e/o la stressante insistenza sono la chiave che fa aprire la porta anche quando è chiusa. L’ausiliario e/o l’Ausiliaria che non è contenuta da chiare conoscenze e regole, può patire, sia dei dissidi interiori, sia dei dissidi fra la sua volontà e quella di ausiliati che non sempre può liberalmente soccorrere. Fissare delle comuni e chiare regole nelle azioni della carità, allora, è, in primo, un difendere la persona di chi si trova a dover dividere il bisognoso dalle eventuali rivalse di un mestierante di bisogni, ed in secondo, un sollevarlo da sensi di colpa per “tradimento”, o verso il suo senso della carità, e/o verso la vita del bisognoso in cui ha dovuto operare delle scelte di esclusione. Il rapporto di considerazione fra la donna e l’uomo della cultura europea è generalmente paritario. Non sempre è così, sia fra la donna e l’uomo dell’est, sia per la donna e l’uomo di provenienza africana: nord o centro che sia. Sia pure generalizzando, per il cittadino di provenienza est o africana, la donna è vista e sentita, non, come paritario soggetto, bensì come servile strumento delle necessità maschili. Il bisognoso in queste condizioni culturali e di vita, pertanto, quando non è potenzialmente pericoloso perché non è chimicamente alterato, lo potrebbe diventare psichicamente perché non accetta che sia una donna a negargli una sua qualsiasi istanza; non l’accetta, appunto perché vive la negazione dell’istanza di aiuto da parte di una Ausiliaria come negazione del suo concetto di uomo e di maschio, che, nella cultura d’origine deve essere servito comunque.
Sarà certamente vero che questi atavici e/o tribali comportamenti sono meno presenti nelle personalità culturalmente più evolute, ma, non sono le evolute che si rivolgono a questo Centro, bensì le povere che avendo bisogno di tutto, a generale autodifesa (e sopravvivenza) non possono che mettersi al centro di ogni tutto. L’egocentrismo per strette questioni di sopravvivenza, in prima istanza non ammette i ma e/o i forse. Le ammette, invece, in seconda istanza, purché ai suoi occhi siano legittimate da una forza (virile&psichica&identitaria&legale&religiosa, ecc,) che, giustificando il contenimento della sua non pone crisi nelle sue identificative certezze. Non creda, la donna, di essere sufficiente forza regolatrice attraverso la costrizione da incarico e/o abito religioso; e se il dato povero glielo fa credere, è solo per un cortese voto di scambio. Della serie: io accetto il tuo no, così, sentendoti mia debitrice, la prossima volta non saprai dirmi di no anche se chiedo di più. Cosa succede se questo scambio di voto non va soddisfatto? Succede che il dato bisognoso può giungere a farsi così assillante, da “penetrare” la volontà dell’ausiliaria, per sfinimento quando non per altro mezzo, ad esempio, contestando le cose e/o l’opera, e/o contestando la persona (religiosa o volontaria che sia) oppure contestando il Centro quando non lo stesso concetto di Carità; serie di contestazioni che comportano il rallentamento del servizio.
Rallentamento del servizio che viene scientemente usato come la leva che ulteriormente deve forzare la volontà ausiliaria: religiosa o no che sia. Nell’eccessiva misura della presenza di ausiliati (in genere sulle 5 o 6) l’eventuale negazione che ci si trova ad attuare verso il primo della fila, viene patita come potenziale esclusione anche dai seguenti. I seguenti, allora, onde non sentirsi in quello stato di ipotizzato abbandono (la negazione) fortificano la loro volontà, manifestandola con una insistenza che può giungere a porre l’equilibrio psichico ed etico del volontario in una frustrante sofferenza. La praticano, quell’insistenza, perché ogni esclusione delle loro esigenze viene vissuta come una perdita di potere: perdita che l’arabo in particolare ma anche il cittadino dell’est, accetta solo con estrema fatica psichica. A suo sentire, infatti, è un “perdere la faccia” di fronte a testimoni della stessa e/o analoga cultura; ed è una vera e propria incertezza nella loro identità virile, pertanto, quello che i cittadini in soggetto si trovano a dover subire di fronte a dei no detti da una donna. Come evitare questa loro identitaria sofferenza, e pertanto, calmierargli l’eventuale esigenza di ripristinare la sua culturale identità anche violentemente, indipendentemente dal come?
Direi, almeno riducendogli il numero dei testimoni dell’eventuale crisi da diniego. In pratico, cosa maggiormente otteniamo con la mediazione che propongo? Otteniamo che nel corridoio antistante il guardaroba ci siano due persone anziché le 5 o 6. La riduzione dei testimoni di una subita negazione gli riduce la possibilità di sentirsi meno potente (e quindi più povero agli occhi di assistiti suoi conterranei) perché un testimone (o due) di una invalidante negazione non ha il peso giudicante di 5 o 6. Non solo: qualora si rendesse necessario una qualsiasi variante dell’assistenza, anche l’azione ausiliaria avrà un ridotto numero di testimoni della sua “ingiustizia” verso gli altri, e quindi, al caso, la critica di uno o due soggetti, non, quella condivisa da altri 5 o 6! Un bacino d’acqua inquinata è composto da infinite gocce d’acqua inquinata. La possibilità di depurare tutta l’acqua inquinata di un bacino è certamente fuori delle nostre possibilità (o quanto meno dalle mie) tuttavia, dal momento che non è scritto da nessuna parte quale sia la goccia che ha colmato il bacino, dove è scritto che depurare poche gocce è meno fondamentale che depurarle tutte?
ANDANDO PER SCALINI